Sentenza 200/2018 – Costituzionalità del Blocco Stipendiale –
Pietra tombale della Corte Costituzionale su tutte le aspettative ?

Sentenza 200/2018 – Costituzionalità del Blocco Stipendiale – <br/>Pietra tombale della Corte Costituzionale su tutte le aspettative ?
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Blocco Stipendiale Corte Costituzionale

Nel nostro articolo “Gli effetti del blocco stipendiale: gli orientamenti interpretativi del giudice delle pensioni in attesa della Corte Costituzionale” pubblicato lo scorso primo settembre, esaminavamo la giurisprudenza formatasi attorno alle tematiche concernenti gli effetti del cd. “blocco stipendiale” sui trattamenti di quiescenza del personale non contrattualizzato posto in congedo nell’arco temporale della “cristallizzazione” degli aumenti retributivi dal 01/01/2011 al 31/12/2014 (Vedi articolo pubblicato).

In quella sede davamo atto dell’ordinanza di rimessione 71/2017 con cui la Corte dei Conti Liguria trasferiva alla Corte Costituzionale il compito di decidere se l’art. 9, comma 21, terzo periodo, del D.L. 78/2010 – convertito con modifiche dall’art. 1, comma 1 della Legge n. 122/2010 – e l’art. 16, comma 1, lett. b) del D.L. 98/2011 – convertito con modifiche dall’art. 1, comma 1 della Legge 111/2011 – presentasse profili di incostituzionalità per contrasto con l’art. 3 della Costituzione “nella parte in cui dette norme non hanno previsto, nei confronti dei soggetti che sarebbero cessati dal servizio nell’arco temporale della “cristallizzazione” la valorizzazione in quiescenza, a decorrere dalla data di cessazione del blocco, degli emolumenti pensionabili derivanti dalle progressioni di carriera conseguite durante il blocco stesso”.

La Corte dei Conti Liguria limitava il sindacato di costituzionalità ai riflessi sul trattamento pensionistico del mancato adeguamento retributivo delle progressioni di carriera conseguite durante la vigenza del blocco.

Nessun richiamo, invece, veniva effettuato agli altri due effetti del blocco stipendiale sulle pensioni: il primo riguardante il mancato adeguamento del trattamento pensionistico agli assegni funzionali ed il secondo, riguardante classi e scatti di stipendio maturati tra il 2011 e il 2014 dal personale non contrattualizzato andato in quiescenza entro il 31.12.2014.<
Anche riguardo quest’ultimo profilo, è stata di recente sollevata, all’Udienza del 06.11.2018, una questione di legittimità costituzionale, che la Corte dei Conti Sezione Giurisdizionale Regione Lombardia, ha ritenuto non manifestamente infondata con ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale che ancor oggi è in attesa di pubblicazione.

La sentenza resa dalla Corte Costituzionale n. 200/2018 depositata il 15.11.2018 (Vedi sentenza integrale) pare però anticipare quello che sarà l’esito del sindacato di costituzionalità sull’ulteriore ordinanza di rimessione della Corte dei Conti Lombardia e, ad avviso di chi scrive, sembra escludere l’illegittimità costituzionale degli effetti del cd. blocco stipendiale sui trattamenti pensionistici nel suo complesso: le argomentazioni della sentenza sono infatti ampie, di portata generale e perfettamente applicabili sia alla ricorsistica promossa dai pensionati con riferimento a classi e scatti stipendiali che a quella incardinata con riguardo agli assegni di funzione.

Ne consegue che con la citata sentenza 200/2018, la Corte Costituzionale, nel dichiarare la costituzionalità della legge (in forma diretta del blocco delle progressioni di carriera ed in forma indiretta di quella su classi e scatti ed assegno funzionale) sembra aver posto una vera e propria pietra tombale su tutte le forme di rivendicazione legate al blocco stipendiale, e ciò con buona pace di tutte le aspettative che gli interessati (i pensionati andati in quiescenza nel periodo 1-1-2011- 31.12.2014) avevano nutrito sulla vertenza.

Comunque, nel rinviare alla lettura integrale della pronuncia, per una maggior comprensione degli effetti estensivi contenuti nella stessa, proponiamo qui di seguito i passaggi più salienti e significativi dai quali sono state tratte le negative conclusioni appena anticipate.

La Sentenza nr. 200/2018 della Corte Costituzionale

La Corte inizia la propria analisi della norma censurata (art. 9, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010, citato) evidenziando come tale disposizione sia stata dettata per contenere la spesa per il pubblico impiego: “La regola limitativa degli incrementi stipendiali – applicabile nel giudizio a quo per il tramite del rinvio del combinato disposto dell’art. 16, comma 1, lettera b), del d.l. n. 98 del 2011, e dell’art. 1, comma 1, lettera a), primo periodo, del d.P.R. n. 122 del 2013 – è posta dall’art. 9, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010, dichiaratamente al fine di contenere le spese in materia di impiego pubblico, come risulta dalla stessa rubrica della disposizione. Tale disposizione stabilisce: «I meccanismi di adeguamento retributivo per il personale non contrattualizzato di cui all’articolo 3, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, così come previsti dall’articolo 24 della legge 23 dicembre 1998, n. 448, non si applicano per gli anni 2011, 2012 e 2013 ancorché a titolo di acconto, e non danno comunque luogo a successivi recuperi. Per le categorie di personale di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e successive modificazioni, che fruiscono di un meccanismo di progressione automatica degli stipendi, gli anni 2011, 2012 e 2013 non sono utili ai fini della maturazione delle classi e degli scatti di stipendio previsti dai rispettivi ordinamenti. Per il personale di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e successive modificazioni le progressioni di carriera comunque denominate eventualmente disposte negli anni 2011, 2012 e 2013 hanno effetto, per i predetti anni, ai fini esclusivamente giuridici. Per il personale contrattualizzato le progressioni di carriera comunque denominate ed i passaggi tra le aree eventualmente disposte negli anni 2011, 2012 e 2013 hanno effetto, per i predetti anni, ai fini esclusivamente giuridici».

Con l’obiettivo di contenere la spesa pubblica, la norma oggetto di censura è “costruita come regola per conformare la retribuzione spettante e non già come prelievo straordinario su una retribuzione più elevata. Ove si fosse trattato di un prelievo straordinario sulle retribuzioni dei pubblici dipendenti, sarebbe venuta in rilievo la sua possibile natura tributaria. Tuttavia la giurisprudenza di questa Corte ha già esaminato la disposizione censurata e ne ha escluso la valenza tributaria con conseguente infondatezza anche, in particolare, delle questioni di costituzionalità sollevate sulla base di tale presupposto (sentenza n. 304 del 2013). Ha affermato la Corte, in quest’ultima pronuncia, che «[l]a norma censurata […] non ha natura tributaria in quanto non prevede una decurtazione o un prelievo a carico del dipendente pubblico» (in senso conforme, con riferimento alla stessa disposizione, le sentenze n. 96 del 2016 e n. 154 del 2014).

In altre parole l’art. 9 comma 21 prevede un limite agli incrementi stipendiali che sarebbero stati altrimenti applicabili; detta norma è, usando le parole della Corte “una regola legale conformativa della retribuzione dei pubblici dipendenti nel quadriennio in questione, che integra, temporaneamente e in via eccezionale, la disciplina, legale o contrattuale, del trattamento retributivo, per perseguire la finalità di contenerne il costo complessivo”. Limitare gli aumenti retributivi è ben diverso dal prevedere una decurtazione straordinaria sulla retribuzione – decurtazione che avendo natura tributaria, potrebbe dar luogo a problemi di legittimità costituzionale con riferimento, ad esempio, all’art. 36 della Costituzione. La Corte, dunque, ribadisce di aver “già ritenuto che la limitazione degli incrementi stipendiali non sia tale da compromettere l’adeguatezza complessiva della retribuzione, sicché non vi è ragione di dubitare della legittimità di questa regola legale conformativa della retribuzione dei pubblici dipendenti.”.

Partendo da tali premesse la sentenza passa ad esaminare il cuore del problema.

Il contenimento della retribuzione nel quadriennio 2011-2014 si è riflesso sul trattamento pensionistico giacché la retribuzione calcolata con il criterio limitativo in questione è stata anche la base di calcolo della contribuzione previdenziale. “Il differenziale tra la retribuzione percepita (perché “spettante” in ragione del criterio limitativo suddetto) e quella che altrimenti sarebbe stata percepita dal pubblico dipendente, ove tale criterio non fosse stato applicabile, rappresenta una quota di retribuzione virtuale non rilevante ai fini pensionistici, perché non spettante né percepita.”

È chiaro in tale inciso il riferimento all’art. 43 del D.P.R. 1092/1973 per i dipendenti civili dello Stato e all’art. 53 del medesimo DPR 1092/1973 – oltre che all’art. 1866 D. Lgs. 66/2010- per i militari.

Tali norme prescrivono che la misura del trattamento di quiescenza va determinato considerando la retribuzione, gli assegni e le indennità pensionabili integralmente ed effettivamente percepiti alla data del pensionamento.

E proprio partendo da tale dato normativo la Corte dei Conti, Sezioni Giurisdizionali Piemonte e Toscana, avevano respinto i ricorsi formulati in materia di blocco stipendiale, così come illustrato nel precedente nostro articolo a cui si rinvia.

Come era stato evidenziato dalla Corte dei Conti Liguria nell’ordinanza di rimessione, manca una disposizione derogatoria a tale effetto naturale della limitazione legale della retribuzione spettante nel quadriennio in questione, a differenza di quanto è invece previsto – come eccezione alla regola – da altre disposizioni dello stesso censurato art. 9 del d.l. n. 78 del 2010, sia al comma 1 (secondo cui la riduzione percentuale delle retribuzioni superiori a una determinata soglia «non opera ai fini previdenziali»), sia dal comma 22, quanto alle soppressioni di acconti e conguagli per il personale magistratuale, che parimenti «non opera ai fini previdenziali» (e che, comunque, è stata ritenuta costituzionalmente illegittima, perché «eccede i limiti del raffreddamento delle dinamiche retributive»: sentenza n. 223 del 2012).” Oltre quindi all’assenza di una norma derogatoria, la Corte Costituzionale osserva ancora che “né, in generale, per il pubblico impiego è prevista alcuna contribuzione figurativa su tale quota differenziale, altrimenti necessaria ove in ipotesi essa dovesse rilevare ai fini pensionistici.”

Il Giudice rimettente, ben consapevole del quadro normativo sopra tratteggiato dalla Corte Costituzionale, individuava nella stretta applicazione della disciplina attuale una violazione del principio costituzionale di uguaglianza e una sostanziale disparità di trattamento tra gli appartenenti al Comparto Sicurezza e Difesa andati in quiescenza a partire dal 01.01.2015 e i colleghi – con pari grado e anzianità maturati nella vigenza del blocco – cessati dal servizio entro il 31.12.2014.

Invocava dunque la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 21, terzo periodo, del D.L. 78/2010 per violazione dell’art. 3 della Costituzione ponendo una questione di ingiustificato trattamento differenziato di situazioni che invece, in ragione del principio di eguaglianza, andrebbero trattate allo stesso modo.

La Corte Costituzionale osserva in sentenza che l’ordinanza di rimessione pone la questione in termini generali, ossia con riferimento a qualsiasi ricaduta sul trattamento pensionistico – a prescindere dal criterio di calcolo, se contributivo o, residualmente, retributivo – del «congelamento» delle retribuzioni previsto dall’art. 9, comma 21, terzo periodo, del D.L. n. 78 del 2010. Evidenzia altresì che la tematica, pur essendo stata sollevata dalla Corte dei Conti ligure solo con riferimento ai pubblici dipendenti non contrattualizzati, investe anche il personale contrattualizzato nei confronti del quale “il quarto periodo del censurato comma 21 dell’art. 9 citato pone la stessa regola limitativa anche per le medesime «progressioni di carriera comunque denominate» conseguite in tale periodo dal personale contrattualizzato, a esse, inoltre, parificando i «passaggi tra le aree» che costituiscono parimenti una progressione di carriera. La normativa del blocco stipendiale riguarda quindi, all’evidenza, tutto il pubblico impiego, sia quello non contrattualizzato preso specificamente in considerazione dalla Corte dei conti rimettente, sia quello contrattualizzato, perché la regola limitativa che il giudice rimettente censura è la stessa.

Una precisazione quella della Corte fatta certamente per far comprendere come i principi espressi in sentenza siano applicabili a tutto il comparto dei dipendenti pubblici.

Passando proprio all’esame dei principi esposti dal Giudice delle Leggi, a sostegno della pronuncia di rigetto della prospettata illegittimità costituzionale, la Corte osserva come sia determinante considerare il fluire del tempo” chedifferenzia il regime pensionistico prima e dopo la scadenza del quadriennio e giustifica il fatto che per i dipendenti collocati in quiescenza nel quadriennio la retribuzione pensionabile – calcolata vuoi con il sistema contributivo, vuoi ancora residualmente con il sistema retributivo – debba tener conto della retribuzione “spettante” secondo la disciplina applicabile ratione temporis, mentre per i dipendenti collocati dopo la scadenza del quadriennio il parametro di riferimento è la retribuzione spettante fino alla data del loro pensionamento. Una volta sterilizzati ex lege, per effetto della disposizione censurata, gli automatismi retributivi nel quadriennio in questione, la retribuzione utile ai fini previdenziali è quella risultante dall’applicazione di tale regola limitativa, senza che a tal fine rilevi il momento del collocamento in quiescenza, se nel corso del quadriennio o successivamente alla sua scadenza.”

Il fluire del tempo giustifica dunque, secondo la Corte Costituzionale, il diverso trattamento riservato a coloro che sono entrati in quiescenza durante il blocco – che, ratione temporis possono godere solo della retribuzione effettivamente percepita ai fini del computo della base pensionabile – e coloro che al momento del collocamento in quiescenza, avvenuto a partire dal 01.01.2015, avevano una retribuzione calcolata in funzione della progressione di carriera conseguita giuridicamente durante la vigenza del blocco.

È solo in termini suggestivi” prosegue la Corte Costituzionale “che l’ordinanza di rimessione lamenta che il dipendente collocato in quiescenza nel corso del quadriennio subisca a tempo indeterminato il rigore della regola censurata che congela solo temporaneamente gli incrementi retributivi. Questa prospettazione avrebbe una sua plausibilità solo se la regola posta dalla disposizione censurata fosse quella di un prelievo straordinario sulle retribuzioni in caso di progressione di carriera: cessata l’operatività del prelievo, la retribuzione si riespande a un livello superiore e si potrebbe dubitare della legittimità costituzionale di un prelievo che per una parte del pubblico impiego in servizio nel quadriennio sarebbe ad tempus e per altra parte – i pubblici dipendenti collocati in quiescenza nel corso del quadriennio – sarebbe sofferta indefinitivamente senza limitazione di tempo.”

Ma, ribadisce la Corte, la disposizione censurata non è costruita come introduttiva di un prelievo straordinario bensì come regola conformativa della retribuzione dei pubblici dipendenti nel quadriennio in questione, per perseguire la finalità di contenerne il costo complessivo.

Una volta posta la regola dell’invarianza della retribuzione dei pubblici dipendenti in caso di progressione di carriera – senza che si dubiti della legittimità costituzionale di tale regola di iniziale immodificabilità in melius della retribuzione, vuoi perché non ne dubita la Corte dei conti rimettente, vuoi perché questa Corte ha già ritenuto non fondate questioni di costituzionalità riguardanti la retribuzione e non già la pensione (per tutte, sentenza n. 310 del 2013) – la ricaduta sul piano del rapporto previdenziale è generalizzata e non consente di porre utilmente a raffronto il trattamento pensionistico, spettante ai dipendenti collocati in quiescenza nel corso del quadriennio in questione, con quello riconosciuto ai dipendenti collocati in quiescenza dopo la scadenza di tale periodo. Così come, con riferimento al blocco della contrattazione collettiva, non potrebbero esser posti in comparazione i trattamenti pensionistici liquidati prima e dopo un incremento retributivo previsto dalla contrattazione collettiva, una volta cessato il periodo di sospensione.”

La Corte Costituzionale, a parere di chi scrive, conclude per la legittimità costituzionale di tutte le ricadute pensionistiche prodotte dalle norme sul blocco stipendiale: non solo il mancato riconoscimento economico delle progressioni di carriera, ma anche la mancata valorizzazione economica delle classi e degli scatti, degli assegni funzionali maturati nel quadriennio del blocco e mai riconosciuti sul trattamento di quiescenza del personale congedato tra il 2011-2014, sono costituzionalmente legittimi. L’art. 3 della Costituzione non è infatti violato: “Ciò in quanto la circostanza che, superato il quadriennio, al dipendente “promosso” sia attribuita una retribuzione superiore, rilevante anche sul piano (contributivo e) previdenziale e del trattamento pensionistico, si giustifica – senza che perciò sia leso il principio di eguaglianza – per l’incidenza del “fluire del tempo” che costituisce sufficiente elemento idoneo a differenziare situazioni non comparabili e a rendere applicabile alle stesse una disciplina diversa (ex plurimis, sentenze n. 104 del 2018, n. 53 del 2017, n. 254 del 2014).”

La Corte Costituzionale, pur esaminando compiutamente solo i rilievi mossi dall’ordinanza di rimessione della Corte dei Conti Liguria con riferimento all’art. 3 Cost., accenna anche agli eventuali profili di incostituzionalità con riferimento all’art. 38 Cost. osservando sinteticamente che “come la tenuta della prevista limitazione degli incrementi retributivi deve essere parametrata soprattutto al canone costituzionale della retribuzione proporzionata e sufficiente (art. 36 Cost.) – e in passato varie questioni in tal senso sono state sollevate, e da questa Corte dichiarate non fondate (per tutte, sentenza n. 310 del 2013) – così la ricaduta di tale limitazione sui trattamenti pensionistici ha come parametro di riferimento essenzialmente l’art. 38 Cost., unitamente allo stesso art. 36 Cost. Il trattamento pensionistico risultante dalla ricaduta, sul piano del rapporto previdenziale, della regola limitativa degli incrementi retributivi deve comunque, se complessivamente considerato, essere proporzionale alla contribuzione previdenziale, nonché sufficiente ad assicurare al pensionato una vita dignitosa.”

Quanto alla proporzionalità del trattamento previdenziale rispetto alla relativa contribuzione si può rilevare che la stessa è implicitamente ritenuta sussistente dalla Corte Costituzionale giacché in altra parte della pronuncia osserva come non sia prevista alcuna contribuzione figurativa sul differenziale tra la retribuzione percepita – perchè spettante in ragione del blocco – e quella che altrimenti sarebbe stata percepita dal pubblico dipendente in sua assenza. Il dipendente pubblico congedato entro il 31.12.2014, in altre parole, non gode dell’incremento riconosciuto ai colleghi posti in quiescenza successivamente, ma non ha neppure versato i contributi richiesti a questi ultimi.

Con riguardo al fatto che il trattamento pensionistico deve essere sufficiente ad assicurare al pensionato una vita dignitosa il Giudice pare escludere a priori qualunque inadeguatezza osservando tra l’altro che “il giudice rimettente non invoca questi parametri (lo fa – inammissibilmente – la parte costituita); non dubita, dunque, della complessiva adeguatezza del trattamento pensionistico spettante al ricorrente in ragione dell’applicazione del blocco stipendiale.”

La Corte Costituzionale, sbarra così la strada anche a ulteriori ed eventuali ordinanze di rimessione per la declaratoria di incostituzionalità delle richiamate ricadute pensionistiche prodotte dalle norme sul blocco stipendiale e fondate sulla violazione dell’art. 38 della Costituzione.

Invocando “il fluire del tempo”, quale elemento tale da giustificare e rendere costituzionalmente legittimo il trattamento pensionistico differenziato tra i dipendenti pubblici pensionati durante e dopo la vigenza del blocco, escludendo – sia pur indirettamente- qualunque violazione dell’art. 38 della Costituzione da parte della norma in esame, il Giudice delle Leggi elabora argomentazioni solide per precludere futuri ripensamenti sulle conseguenze previdenziali del cd. “blocco stipendiale”.

Ciò, unito all’assoluta preminenza e rilevanza all’interno del nostro sistema giuridico del sindacato di costituzionalità, pare condurre i ricorsi promossi sulle tematiche del blocco stipendiale sulla via del non ritorno…verso il “de profundis”.

E che tale sia il destino giudiziario del blocco stipendiale, è confermato proprio dall’ultima affermazione della Corte che, intrinsecamente convinta dell’iniquità sostanziale se non giuridica della dichiarata costituzionalità delle norme impugnate, indica nel Legislatore l’unico organismo in grado di cambiare le sorti di questa complessa vicenda giudiziaria. Non và dimenticato, infatti, che, al di là delle articolate motivazioni e del richiamo alle precedenti decisioni, la disparità di trattamento trova la sua legittimazione e fondamento, non in ragioni sostanziali ma “in ratione temporis”, facendo del “capodanno del 2015” la linea di demarcazione fra chi rimane penalizzato permanentemente dal blocco e chi, invece, lo supera e recupera completamente vantando l’unico merito, in situazioni del tutto eguali, di aver lavorato un giorno in più.

Infatti, a chiusura della trattazione in diritto la Corte così conclude: “Spetterebbe comunque al legislatore, nell’esercizio discrezionale delle scelte di politica economica e di compatibilità con l’esigenza di equilibrio della finanza pubblica, prevedere eventualmente quanto richiede il giudice rimettente: la riliquidazione dei trattamenti pensionistici dei pubblici dipendenti, collocati in quiescenza nel quadriennio del blocco degli incrementi stipendiali, e che nello stesso periodo abbiano conseguito una progressione di carriera o un passaggio a un’area superiore”.
E l’utilizzo del condizionale presente “Spetterebbe”, conferisce all’ultimo inciso della Corte il consapevole valore di “una voce nel deserto”.


Avvocato Eleonora Barbini

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